martedì 26 gennaio 2016

Elisa nel metrò

Scesi dalla metro.
Tra quelle pareti arrugginite e depresse, procedevo a tentoni tra gli altri, in quella folla di tanti nessuno. In quella stazione i miei passi erano incatenati da tutti quei piedi, i miei occhi ciechi, i miei pensieri sommersi non potevano respirare.
Possibile soffocare in quell’apatia, in quei tanti corpi che stipati e vuoti continuavano a muoversi all’unisono?
Accelerai il passo su quei gradini grigi, dimentichi e riemersi alla luce delle nuvole.
Mi coprii le orecchie con la musica, iniziai a camminare decisa, camminavo tra quelli che non erano altro che pedoni.
Alzai il volume tanto da non poter sentire nulla attorno a me, senza sentire nessun rumore, nessuna voce, nessun’automobile.
Finalmente i miei pensieri storditi si svegliarono ed echeggiarono vivaci nella mente ancora assopita. Il mio corpo seguiva il ritmo, la mia anima quella voce che gridava la sua pena. Esaltata seguivo quelle note e a stento potevo trattenermi dal cantare.
Quella tristezza che mi aveva conquistata nei giorni passati: tanto nobile ma trascorsa.
Ero felice.
Il vento mi mischiava i capelli sul viso. Il mio sguardo fiero era un poeta incantato, tutt’uno con quella musica esaltante, con quella voce femminile perfetta e forte. I miei piedi in un duello d’amore toccavano e lasciavano il suolo.
Era quello il momento, era quella la sensazione. Un intenso frammento che s’insinua nel cuore, una scheggia di gioia così pura da far male.
Un’emozione che commuove: ascoltare alcune canzoni tristi che ci premono sul petto, stare di fronte ad un paesaggio che ci riempie il respiro e lo sguardo. Una semplice risata con un amico che fa piangere gli occhi e ridere l’anima.
Un bacio. Quei baci, quando si può sentire l’altro attraverso le sue labbra, sentire i suoi pensieri, che per quell’istante sono gli stessi: “fino a quando non morirò”.
Temetti che quel sorriso ebbro stampato sul mio viso potesse farmi apparire ridicola, forse stavo persino camminando a tempo con quella canzone.
E in fondo non mi mancava niente per essere felice. Il mio lavoro era solo un lavoro, ai miei piedi c'erano un paio di stivali nuovi neri, scamosciati, assolutamente perfetti; la mia mano destra portava un sacchetto della libreria con all’interno un romanzo di Mira Graz che avrei adorato.
Sì tutto era perfetto, io lo amavo e lui amava me.
Che stessi canticchiando?
Ero felice.
(Fotografie in Re Maggiore)

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